Diventa Socio
Iscriviti alla Newsletter
Iscriviti alla Newsletter
Ritorna a Confapi Padova

DA PORTO: «COP26, A GLASGOW È IN GIOCO IL NOSTRO BENESSERE. MA ANCHE IN VENETO POSSIAMO FARE LA NOSTRA PARTE»

Francesca-da-Porto.jpg

«Le più recenti stime di rischio, basate sui dati degli ultimi trent’anni, collocano l’Italia addirittura al sesto posto nel mondo per vittime e al diciottesimo per perdite economiche pro-capite legate alla crisi climatica. Un costo che ricade su tutti e limita le possibilità di sviluppo futuro del paese. Ecco perché quanto si decide a Glasgow riguarda da vicino tutti noi». Abbiamo fatto il punto sulla conferenza Cop26 intervistando la Prorettrice alla Sostenibilità dell’Università degli Studi di Padova Francesca Da Porto, Professore Ordinario di Tecnica delle Costruzioni. Ecco cosa ci ha detto.

Domanda che vale da premessa generale: perché un cittadino comune ha il dovere di interessarsi al dibattito in corso alla Cop26 in corso a Glasgow? 

«La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (o “conferenza delle parti”, da cui il nome “COP”, sottoscrittrici della convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) è un evento che riunisce i principali leader mondiali per concordare come intensificare l’azione globale al fine di risolvere la crisi climatica. Detta così potrebbe sembrare una cosa molto distante dalla gente comune, ma le conseguenze del riscaldamento globale, dall’innalzamento del livello degli oceani ai forti cambiamenti climatici in atto, sono sotto gli occhi tutti: eventi metereologici estremi, alluvioni, incendi, siccità, ondate di calore, ondate di freddo, si stanno verificando con sempre maggiore frequenza e intensità e causano ingenti perdite economiche e vittime. L’Italia è tra i paesi più colpiti in Europa, ma le più recenti stime di rischio, basate sui dati degli ultimi trent’anni, ci collocano addirittura al sesto posto nel mondo per vittime e al diciottesimo per perdite economiche pro-capite (Global Climate Risk Index 2020). Un costo che ricade su tutti e limita le possibilità di sviluppo futuro del paese, per cui le scelte politiche in ambito climatico ci riguardano molto da vicino».

La prima settimana di Cop26 si è chiusa tra valutazioni opposte, tanto che i protagonisti interpellati sembrano aver assistito a due diverse Conferenze sul clima: se Alok Sharma, il presidente britannico di Cop, parla di accordi fondamentali già raggiunti e di una grande speranza per l’esito finale venerdì prossimo, Greta Thunberg ha bollato la kermesse con il solito “bla bla bla”. Dove sta la verità secondo lei?

«La verità è che dobbiamo attendere fino alla fine il lavoro dei negoziatori, che proseguirà fino alla chiusura della conferenza di venerdì. È innegabile che la prima bozza delle conclusioni finali sia troppo generica, che si sia parlato troppo poco di combustibili fossili e che dagli accordi sulla riduzione dell’uso del carbone nella produzione di elettricità si siano sfilati, o abbiano assunto posizioni molto ambigue, grandi paesi tra i quali non solo la Cina, ma anche gli Stati Uniti ad esempio. È anche vero che ci sono una serie di intese tra parti che, pur delineando impegni non vincolanti, trattano temi molto interessanti. Sicuramente un clima tiepido in cui le grandi ambizioni dell’avvio si sono via via “mitigate”. D’altra parte Greta incarna la rabbia di una generazione che dovrà assumersi il peso delle scelte delle generazioni precedenti, senza aver goduto di particolari vantaggi dallo sfruttamento delle risorse che ha portato il pianeta alle condizioni attuali. È naturale che per questi giovani non sia di rilievo porre l’attenzione sulle difficoltà connesse alla transizione ecologica».

Il dialogo con Cina, India e Russia sembra arenarsi sull'obiezione che l’Occidente, a cui sono imputabili gli attuali livelli di inquinamento, non può pretendere sacrifici così pesanti da Paesi giunti solo in epoca recente allo sviluppo industriale. Come uscire da questa empasse?

«Penso che si debba riflettere sull’emergenza climatica e agire tutti più rapidamente di ora, ma bisogna anche riflettere sulle conseguenze sociali che avrebbe una transizione ecologica imposta con ritmi non adeguati al paese in cui la si attua. Non mi riferisco ovviamente ai paesi che cita, quanto a quelli oggi già in grave difficoltà, in cui l’estinzione improvvisa del modello economico attuale potrebbe non essere assorbita, causando forti tensioni sociali, disoccupazione, nuova povertà. Con paesi quali Cina, India e Russia sarebbe invece ora di uscire allo scoperto e fare dei patti chiari. Il loro ritardo nel centrare gli obiettivi climatici da un lato, e i segnali di tensione tra le altre grandi potenze e questi paesi dall’altro, sono principalmente dettati da logiche economico-commerciali da un lato e da politiche di contenimento dell’espansione dall’altro. Questo genere di politiche non può che essere fallimentare nei riguardi della lotta ai cambiamenti climatici. Tutti i paesi che hanno raggiunto una certa solidità, e che hanno anche capacità tecnologiche, dovrebbero puntare alla riduzione delle emissioni, che peraltro costituisce una grande opportunità di sviluppo economico e lavoro, definendo con trasparenza, se necessari, percorsi di tutela del corpo sociale».

Quali sarebbero le misure concrete per cui potremmo parlare di un successo della Cop26?

«L’obiettivo principale della COP26 è quello di azzerare le emissioni nette a livello globale entro il 2050 e puntare a limitare l’aumento delle temperature di 1,5°. Per far questo le strategie principali individuate sono quelle che prevedono l’accelerazione del processo di fuoriuscita dal carbone, l’abbandono dei veicoli inquinanti a favore di quelli a zero emissioni, la limitazione della deforestazione, l’investimento nelle rinnovabili, e più in generale la mobilitazione internazionale di investimenti rilevanti (almeno 100 miliardi di dollari all’anno) nella transizione ecologica. Dal punto di vista pratico, per descrivere gli scenari e definire le azioni concrete da mettere in campo, la Conferenza delle Parti si avvale del lavoro dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che fornisce periodicamente valutazioni scientifiche sul cambiamento climatico, sulle sue implicazioni, e sulle possibili opzioni di adattamento e mitigazione. Gli strumenti per prendere le decisioni quindi ci sono, il problema è definire con chiarezza tempi e misure. Faccio un esempio: gli obiettivi si possono raggiungere eliminando il carbone come fonte di energia nei paesi sviluppati entro il 2030 ed entro il 2040 per i paesi in via di sviluppo; proteggendo e conservando almeno il 30% delle terre emerse e delle acque interne, costiere ed oceaniche entro il 2030; definendo obiettivi intermedi, su base quinquennale, per la transizione verso i veicoli non inquinanti (2030-35-40), eccetera. Se, al contrario, avremo dichiarazioni con orizzonti temporali sfumati ed impegni generici, allora non si potrà parlare di un successo per la COP26. Fondamentale è anche l’impegno a presentare i nuovi Contributi determinati a livello nazionale (NDC), che ogni Paese dovrebbe periodicamente comunicare. Gli NDC non sono altro che gli obiettivi di riduzione delle emissioni di ciascun Paese per la propria economia e/o per specifici settori, che quindi contribuiscono a mantenere una progressione dell’impegno nel tempo. Se vogliamo che alle dichiarazioni seguano azioni concrete, a livello dei paesi, è necessario che questi aggiornino costantemente i loro obiettivi, ma è anche importante che si stabilisca un meccanismo trasparente di verifica».

Premesso che il contenimento delle emissioni chiama in causa attori a livello globale, come valuta l’impegno delle istituzioni a noi più vicine, ovvero la situazione in Veneto?

«Da un lato in una Regione fortemente industrializzata e caratterizzata da un alto livello di benessere come la nostra pensare a un processo di profonda trasformazione potrebbe sembrare un controsenso, e anche un’operazione rischiosa e complessa. Dall’altro abbiamo assistito negli ultimi anni ad una perdita di competitività generale. Vista questa congiuntura specifica, il contenimento delle emissioni in Veneto potrebbe essere declinato non soltanto attraverso classiche politiche territoriali, energetiche ed ambientali, ma anche mediante una nuova politica industriale che miri a realizzare filiere produttive strategiche e a convertire quelle esistenti, sostenendo la transizione verso modelli economici diversi e più rispettosi dell’ambiente e rafforzando la trasformazione digitale. Questo processo può portare a grossissime opportunità di sviluppo e a una riaffermazione della competitività, soddisfacendo anche le nuove esigenze ambientali e sociali scaturite dalla crisi attuale. Ho fiducia nella capacità di cogliere le occasioni del nostro territorio, credo quindi che ci si stia iniziando a muovere in questo senso. D’altra parte, con la ricerca scientifica, le Università possono sviluppare e trasferire modelli e soluzioni innovativi e plausibili per affrontare queste sfide. La partita quindi si deve giocare assieme anche qui: istituzioni, mondo produttivo e società civile».

 

 

Diego Zilio

Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

Condividi su
Stampa Stampa DA PORTO: «COP26, A GLASGOW È IN GIOCO IL NOSTRO BENESSERE. MA ANCHE IN VENETO POSSIAMO FARE LA NOSTRA PARTE»

RESTA AGGIORNATO,

Iscriviti alla newsletter