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«COSÌ DIAMO NUOVE SPERANZE AI PAZIENTI»

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Abbiamo intervistato la professoressa Lucrezia Furian, responsabile del Centro per la terapia cellulare del diabete e tra i soci fondatori della Fondazione TCD: «La terapia punta sul trapianto di insule pancreatiche, trattamento rivoluzionario in grado di affrancare i pazienti affetti da diabete di tipo 1».

 

A sostegno della ricerca. I proventi della cena di gala di Confapi Xmas Night 2024 - mercoledì 11 dicembre 2024 alle ore 18, all’Agriturismo La Penisola a Campo San Martino - saranno destinati alla Fondazione TCD - Terapia Cellulare del Diabete, finalizzata a trovare terapie cellulari innovative, per raggiungere l’ambizioso obiettivo di curare il diabete di tipo 1 in maniera definitiva e in una popolazione sempre più ampia. A parlarci delle attività della Fondazione è la professoressa Lucrezia Furian, responsabile del Centro per la terapia cellulare del diabete, inaugurato nel complesso Pietro d’Abano di via Orus, alla fine del 2021, nonché Direttrice UOC Chirurgia dei Trapianti di Rene e Pancreas dell’Azienda Ospedaleria - Università di Padova.

«Innanzitutto va chiarito che in genere si parla di diabete, ma che ce ne sono di diversi tipi. Quello più frequente è il diabete 2, correlato all’età che avanza, al sovrappeso e allo stile di alimentazione: è una patologia che vede il paziente produrre insulina in quantità insufficienti rispetto a quelle che sono le sue necessità metaboliche e riguarda circa quattro milioni di italiani, di cui 280 mila veneti. Una quota più piccola è invece affetta dal diabete di tipo 1, che colpisce i giovani, spesso i bambini, ed è caratterizzato da una distruzione del pancreas nella sua porzione che produce gli ormoni che regolano la glicemia, ovvero l’insulina».

Di quanti pazienti parliamo in questo secondo caso?

«Circa 300 mila in Italia, di cui 20 mila in Veneto. E purtroppo per loro l’evoluzione delle complicanze del diabete tende a essere molto più precoce rispetto a quanto non accada per i pazienti affetti da diabete di tipo 2. Parliamo di complicanze croniche come quelle legate ai reni, che possono costringere alla dialisi, a malattie cardiovascolari e alla cecità, ma anche complicanze acute che mettono a rischio la vita stessa. Per questi pazienti sono a disposizioni terapie trapiantologiche, per cui si va a sostituire il pancreas, nella sua porzione endocrina, con il pancreas di un donatore».

Un intervento invasivo.

«Proprio così. La particolarità del nostro laboratorio, il terzo in Italia oltre ai due presenti a Milano - il Niguarda e il San Raffaele - è che prevede la possibilità di estrarre dal donatore solo le cellule che producono l’insulina - le insule - per poi iniettarle nel paziente. Una tecnica multidisciplinare evidentemente molto meno invasiva del trapianto del pancreas».

Circa un anno fa, il 2 novembre 2023, avete effettuato il primo trapianto di questo tipo in Veneto, una data storica.

«Prima è servito accreditarsi attraverso un lungo lavoro di certificazione. Appena ci siamo accreditati abbiamo effettuato l’intervento: da allora sono stati eseguite 6 infusioni di questo tipo, ricevendo le cellule da un paziente deceduto, e due autotrapianti su pazienti che dovevano essere sottoposti alla rimozione del pancreas e che, grazie a questo intervento, hanno evitato di diventare pazienti di tipo 3».

Immaginiamo che le richieste siano molto numerose.

«Tenete conto che questi sono numeri ristretti ma di tutto rispetto, non si tratta infatti di un trapianto come quello del rene, che prevede circa 200 interventi all’anno. Se i numeri sono ristretti è perché il paziente deve assumere farmaci anti-rigetto, per cui per ognuno vanno valutati accuratamente tutti i rischi e va considerato se è più opportuno proseguire con la terapia insulinica tradizionale. Ma questo è il punto: la ricerca - e l’attività della Fondazione TCD - nasce perché vogliamo, un giorno, non dover più scegliere il male minore, arrivando a interessare più pazienti senza dover ricorrere a cure immunosoppressive. La ricerca vuole appunto portarci a nuove soluzioni, che evitino la risposta immunologica contro le cellule trapiantate. In questo modo si potrà allargare di molto il numero di persone che possono giovarsene».

La prospettiva è quella di arrivare a curare anche i bambini. È così?

«Il rischio di una terapia anti-rigetto per i bambini, oggi come oggi, è troppo elevato. Ed è proprio per questo motivo che vogliamo arrivare a produrre cellule “microcapsulate”, circondate cioè da biomateriale che le schermi ed eviti il rigetto da parte del corpo. Ci sono ancora tanti passaggi da fare e prima la sperimentazione riguarderà gli adulti, ma l’obiettivo è proprio quello di trattare i più piccoli».

Professoressa, quante persone lavorano nella sua équipe?

«6 chirurghi e 5 tra biologi e biotecnologi».

E, per dare un’idea, di quante risorse avreste bisogno per arrivare a completare il progetto?

«Non voglio spaventare nessuno, ma si parla di diverse centinaia di miglia di euro: per arrivare a completare il progetto potrebbero servire un paio di milioni. Tenete presente che noi abbiamo deciso di lavorare a questo obiettivo senza avere case farmaceutiche alle spalle e senza implicazioni commerciali. Non è quello l’obiettivo. Ci supportiamo con i contributi raccolti dalla Fondazione proprio per mantenere la più assoluta indipendenza. La Regione Veneto ci ha permesso di mettere in piedi il laboratorio, destinato ai trapianti di insule (grazie a un finanziamento iniziale di 1 milione 296 mila euro, ndr), per la ricerca, invece, le risorse vanno trovate. Per darvi un’idea, solo l’acquisto del Polimero dal Mit costa 300 mila euro, ma poi servono le attrezzature, come, ad esempio, le macchine per le capsule. Proprio in questi giorni abbiamo ordinato una macchina di nome Prism, di cui esistono solo altri due esemplari al mondo, che costa 230 mila euro. E, come ci insegna l’esperienza dei nostri colleghi di Chicago nello stesso campo, la ricerca va avanti “a strappi”, in base alle risorse a disposizione. A volte può essere molto veloce, come per i vaccini per il Covid, altre più lenta, pensiamo a come i vaccini per l’Hiv ancora non esistano».

Ma oggi è più ottimista rispetto a un anno fa, quando avete effettuato il primo trapianto?

«Assolutamente sì. Abbiamo visto che la processazione delle insule, che altri stanno ancora cercando di fare, ci è riuscita con successo e in tempi rapidi. Ora si tratta di riuscire a schermare quelle cellule, ma posso dirvi che i passi compiuti sono stati importanti. Un anno fa ci ponevamo domande che sono molto diverse da quelle che ci poniamo adesso».

 

Diego Zilio

Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

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