Fabbrica Padova, centro studi di Confapi, ha chiesto al prof. Roberto Antonietti - Dipartimento di Scienze Economiche e Aziendali “Marco Fanno” dell’Università di Padova, dove insegna Istituzioni di Economia Politica, Economics of Innovation ed Economic Globalization and Human Rights - di analizzare quali scenari si prospettano per le imprese del Nord Est dopo l’elezione di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Ecco l’intervista.
Professore, cosa dobbiamo aspettarci dopo l’insediamento di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti?
«La premessa è che già stavamo attraversando una fase di enorme incertezza, turbolenza e complessità sul piano geopolitico. L’elezione di Trump di certo non ne smorza i contorni, anzi getta sul fuoco ulteriore benzina, esacerbando il quadro su cui dovranno muoversi i governi, così come le imprese e i cittadini. È chiaro che, in una situazione del genere, qualsiasi tipo di progettazione risulta più complicata. Se lo scenario di fondo è questo, dobbiamo tenere presente che parliamo di un Trump 2, e come Trump si è mosso nel corso del suo precedente mandato. Rispetto ad allora il presidente degli Stati Uniti ha mantenuto la stessa visione “muscolare” dell’economia, orientata al rafforzamento del ruolo egemonico del suo paese, anche attraverso politiche neomercantilistiche protezionistiche che credevamo di esserci lasciati alle spalle. Da un lato ha l’obiettivo di ridurre, se non addirittura pareggiare, il deficit commerciale con i partner storici, dall’altro valuta l’aumento delle spese militari degli Usa e, a ruota, dei paesi partner, tanto da avere prospettato persino l’uscita dalla Nato. Resta da capire quanto di tutto ciò si tradurrà in misure concrete e quanto rimarrà una “sparata” elettorale. Finché non le vedremo “scritte”, non possiamo sapere se queste misure andranno in porto».
I maggiori timori delle nostre imprese sono legati alla possibile introduzione di dazi commerciali verso l’Europa.
«Il Trump 1 è stato di parola, li aveva promessi nel 2017 e nel 2018 li ha alzati. Con conseguenze non esattamente rosee per gli Stati Uniti, con una perdita complessiva di reddito reale pari, secondo alcuni economisti americani, a circa 1.4 miliardi di dollari. È vero che, dopo, la loro economia ha ripreso a crescere, ma non certo per via dell’introduzione dei dazi. Ora, se saranno reintrodotti, le conseguenze saranno numerose. Se l’obiettivo di medio e lungo termine è quello di proteggere la produzione americana, questo però comporterà anche costi più elevati per l’acquisto dei prodotti dall’estero, il che potrebbe generare una spirale inflazionistica che difficilmente sarebbe digeribile dall’economia statunitense, dai cittadini stessi – e quindi anche dagli elettori di Trump – e dalla Fed, che da tempo è impegnata a combatterla attraverso i tassi di interesse. Tassi che la Fed stessa ha deciso di mantenere inalterati proprio in risposta ai possibili effetti distorsivi dovuti all’introduzione di ulteriori dazi alle importazioni. Un’ulteriore possibile ripercussione è poi quella geopolitica: l’imposizione di dazi, specie se in un paese del peso degli Stati Uniti, non può non averne. Quali? Innescare una contro-reazione con dazi di rappresaglia da parte di Cina, Messico, Canada, Unione Europea e tutti i paesi che saranno interessati. E vale la pena di ricordare che, se i dazi americani introdotti nel 2018 colpirono solo alcuni settori, i dazi di rappresaglia furono a 360 gradi».
Nella bilancia tra dare e avere, agli Stati Uniti tutto ciò conviene?
«L’effetto immediato nel 2018 fu una contrazione dei volumi del commercio. Ora, alla base dell’introduzione c’è l’idea che i comportamenti dei consumatori non cambino, ma è chiaro che la loro introduzione avrà conseguenze a riguardo. Trump punta sul fatto che gli Stati Uniti saranno in grado di sostituire i prodotti importati con loro prodotti domestici, ma questo, se mai può avvenire, può verificarsi solo sul lungo periodo. Nel breve, gli effetti negativi sul potere d’acquisto degli americani sono inevitabili».
Perché allora pensare di riproporre lo stesso errore?
«Perché nella sua ottica non è stato un errore. Gli Stati Uniti sono cresciuti dopo il covid tenendo un alto livello di occupazione, ma è stata tutta la loro economia, in generale, a crescere a ritmi sostenuti. Il punto è che l’effetto dei dazi si è mescolato all’effetto rimbalzo successivo alla pandemia, in seguito al forte impulso alla spesa pubblica voluto dall’amministrazione Biden, che ha giocoforza influito sulla situazione. Inoltre, non dimentichiamo la visione dell’economia, e del commercio, di Trump, volta a ridurre il disavanzo commerciale e a ristabilire l’equilibrio tra import ed export».
Sullo sfondo c’è la questione della guerra in Ucraina da far cessare.
«Sarà un banco di prova, perché non dimentichiamo che nel suo programma elettorale del presidente Trump la sua conclusione era ai primi posti nell’agenda. Gli aiuti militari all’Ucraina verranno stoppati o fortemente ridotti. Ma la Russia è comunque nel mirino dei dazi di Trump, che ha minacciato di introdurli se non si arriverà a un accordo. E una delle incognite è come reagirà un’altra figura dal carattere forte, come è Putin, all’imposizione di simili condizioni».
Sul piano internazionale, va rimarcato che la presidente Giorgia Meloni era l’unica leader europea presente alla cerimonia di insediamento. Questa vicinanza può tradursi in una posizione privilegiata per l’Italia, secondo lei?
«Nessuno ha la sfera di cristallo, in ogni caso io credo che possa esserci, ma solo su un piano marginale. L’Italia è un partner storico ed è nei radar di Trump: spende poco dal punto di vista militare, contribuisce in modo limitato al budget Nato e conta su un surplus commerciale abbastanza rilevante con gli Stati Uniti. Peraltro, apro una parentesi: al primo posto tra i partner commerciali americani c’è la Germania, paese molto legato all’Italia, e in particolare al Nord Est, per la subfornitura, e se la Germania, che già sta attraversando un periodo di crisi, subirà ripercussioni, per forza di cose ne risentiremo anche noi. Teniamo anche conto che siamo inseriti nell’Unione Europea e che l’ipotesi è quella di dazi nei confronti dell’Unione Europea, non, per capirci, dell’Unione Europea meno l’Italia. Possiamo però ipotizzare che l’amministrazione Trump non ostacoli l’Italia e che questo faciliti l’ingresso delle imprese del nostro paese in qualità di investitrici negli Usa, anche se è da presupporre che questa ipotesi riguarderà, nel caso, le imprese medio-grandi e non le piccole. Allo stesso tempo potrebbero essere agevolati progetti sul taglio di quelli che stiamo sviluppando in Africa. Il fatto poi che l’Italia possa esercitare un ruolo di interlocutore privilegiato rispetto agli Stati Uniti ha anche una possibile controindicazione: Meloni ha impiegato del tempo per affrancarsi e vedersi riconosciuta come un interlocutore affidabile in Europa, ora potrebbe attirarsi le invidie delle altre governance dell’Unione o portare l’Italia ad essere più isolata in Ue. Insomma, è una lama a doppio taglio. Diverso sarebbe un quadro in cui la presidente potesse convincere Trump a non adottare i dazi, ma nella storia non si è mai visto un governo italiano in grado di esercitare una simile influenza».
Domanda diretta a chiudere la riflessione: professore, lei pensa che i dazi saranno introdotti?
«Non ne sono così convinto. Già sono presenti in alcuni settori, e per adesso aggiungerne di ulteriori mi sembra solo una minaccia, a cui peraltro i paesi partner non sembrano aver creduto mostrando segni di debolezza. A riprova di questo, già oggi abbiamo visto il presidente Trump annullare le proprie decisioni verso Canada e Messico e proporre loro una negoziazione sui controlli alle frontiere, il suo vero obiettivo. Vedremo se Trump avrà la perseveranza di continuare a minacciare la guerra commerciale su scala globale. Come detto, è chiaro che l’obiettivo principale non è tanto la protezione delle produzioni americane, ma un altro: usare la leva dei dazi come strumento di coercizione o persuasione verso alcuni partner commerciali. Queste manovre sembrano anacronistiche e tuttavia sono un modo per far capire agli alleati: qui comando io e le regole le impongo io. Ma se ragionare così poteva funzionare negli anni Ottanta, in piena guerra fredda, e con davanti un avversario debole economicamente, oggi il quadro è molto diverso: gli interlocutori sono di più, più forti, e tutti tra loro interconnessi in una grande rete globale».
Diego Zilio
Ufficio Stampa Confapi Padova