La parabola del miracolo economico africano è in fase discendente? Non per tutti i mercati. L’ultimo Focus On dell’Ufficio Studi di SACE individua nel fattore C3 (Commodity, Cina e Capitali esteri) la chiave di lettura del futuro del continente.
L’Africa subsahariana sembra aver perso il suo ritmo di crescita. Il Pil della regione nel 2015 ha segnato un record, in negativo, con una crescita del 3,4%. Il risultato più basso dal 2000. Persino nel 2009, anno di recessione globale, era riuscita a fare meglio.
Anche le previsioni per l’anno in corso lasciano poco spazio all’ottimismo e si orientano su un ulteriore rallentamento dell’attività economica, intorno al 3%, in attesa della ripresa prevista nel 2017-18 dal Fondo Monetario Internazionale.
Calo dell’export, minori entrate fiscali, riserve valutarie impoverite e pressioni sulle monete nazionali: un mix di difficoltà, tra loro correlate, che ha portato di nuovo alla luce i problemi tipici del continente.
Si può quindi parlare della fine del miracolo economico dell’area? L’Africa non è più un mercato di frontiera su cui le imprese possono dirigere il loro business? Non è detta l’ultima parola. Non tutti e 49 i paesi dell’area vivono infatti le medesime criticità. SACE propone una chiave di lettura per distinguere i mercati più a rischio da quelli relativamente sicuri.
Le difficoltà dell’Africa subsahariana possono essere ricondotte a tre elementi, tra loro fortemente correlati: le commodity, la Cina e i capitali esteri, ribattezzati dagli analisti di SACE il fattore C3, non solo sfruttando la comune lettera iniziale ma anche per richiamare l’accezione fortunosa che hanno giocato nel recente passato. E che nel presente e per il prossimo futuro si rivelano, al contrario, punti di attenzione.
Innanzitutto le commodity. Circa i due terzi dell’export totale della regione è riconducibile alle risorse energetiche e minerarie e all’estrazione di metalli, rispetto al 16% di beni manufatti e al 10% di prodotti agricoli. Gli eccessi di offerta, le incertezze sulla domanda dei principali mercati emergenti e un dollaro più forte continuano a spingere al ribasso i prezzi delle materie prime. A pagarne le ripercussioni sono soprattutto i Paesi africani esportatori di oil&gas, in particolare la Nigeria e l’Angola, senza dimenticare altre economie petrolifere in difficoltà, come la Repubblica del Congo, il Gabon e la Guinea Equatoriale. Ma non è solo l’oil a pesare su queste economie, altri paesi sia in Africa australe (ad esempio Botswana, Sudafrica e Zambia), che in Africa Occidentale (Guinea, Liberia, Sierra Leone) hanno dovuto fare i conti con il deterioramento dei prezzi delle risorse minerarie non energetiche da loro esportate, come ferro, rame, diamanti e platino.
Il secondo fattore è la Cina, un attore importante per le sorti economiche dell’Africa subsahariana: già dal 2011 la Cina è divenuta il primo partner commerciale della regione e gli scambi commerciali sino-africani valgono oggi circa 200 miliardi di dollari, un livello paragonabile all’interscambio tra Africa Subsahariana e Unione Europea e quattro volte circa quello con gli Stati Uniti. Da questi numeri emergono chiaramente le ripercussioni del rallentamento cinese sulla crescita africana. La spinta di Pechino su una crescita interna più legata a consumi e servizi si è infatti tradotta in un calo dell’import dal subcontinente africano, in particolare di risorse energetiche e minerarie. Soffrono quelle economie che si trovano, per scelta o necessità, a dipendere per gran parte delle loro vendite dal mercato cinese, con quote anche superiori al 40% dell’export nazionale, come l’Angola, la Sierra Leone, la Mauritania, lo Zambia o la Repubblica Democratica del Congo.
Ultimo, ma non per importanza, il fattore capitali esteri. Negli anni passati, la ricchezza di materie prime e rendimenti finanziari positivi avevano attratto in Africa subsahariana le grandi multinazionali e gli investitori internazionali. Oggi, nel quadro di bassi prezzi delle commodity e di un graduale rafforzamento del dollaro, i flussi dei capitali internazionali verso l’Africa sono progressivamente in diminuzione. Tra le spiegazioni, una minore propensione delle banche europee all’attività di credito nella regione, ma anche un calo delle emissioni di Eurobond da parte dei Paesi africani, scese a 9,2 miliardi di dollari rispetto ai 12,9 miliardi di dollari del 2014. Il numero di emissioni è diminuito in seguito a condizioni diventate più costose, in alcuni casi quasi proibitive: gli spread sui rendimenti sono arrivati a superare il 9% (come nel caso dello Zambia a luglio 2015 e dell’Angola a novembre 2015) se non addirittura il 10% (Ghana, a ottobre 2015). Il mercato dei capitali internazionali sconta quindi un rischio maggiore che i Paesi africani non onorino le proprie obbligazioni, come emerge anche dalle recenti notizie sul caso Ematum in Mozambico. Non è un caso se dall’inizio del 2016 non ci siano state nuove emissioni di Eurobond da parte di paesi dell’area subsahariana.
Il rallentamento economico del continente ha impattato anche sull’attività commerciale delle nostre imprese nella regione. Nel 2015 l’export italiano verso l’area si è fermato a 5,7 miliardi di euro, in calo del 7,9% rispetto all’anno precedente. Questo dato negativo è particolarmente significativo perché arriva dopo il record storico registrato nel 2014 e soprattutto perché si tratta della prima battuta di arresto dopo l’ultima crisi economica dell’area nel biennio 2009-10. Le previsioni di SACE indicano per il 2016 un’ulteriore flessione dell’export italiano verso l’area, seppure più attenuata.
I mercati africani che registrano un calo più evidente della domanda di beni italiani sono quelli caratterizzati da un elevato Fattore C3. Possiamo citare i cali tra il 25 e il 40% dell’export italiano, in particolare di beni di investimento, verso le economie africane più legate al petrolio, come la Nigeria, l’Angola e la Repubblica del Congo. Ma è anche interessante notare come a un Fattore C3 più basso corrisponda anche un export italiano in forte incremento. Nel 2015 crescono infatti a doppia cifra le nostre vendite verso quelle economie meno dipendenti dai tre fattori, come ad esempio la Costa d’Avorio (che con un +59% diventa il terzo mercato di destinazione nell’intera Africa subsahariana), il Kenya e il Senegal.
Sono questi quindi i paesi da cui deve ripartire la crescita africana. Una crescita meno dipendente da fattori esterni al continente. Sono i nuovi mercati di opportunità che le società italiane devono puntare a presidiare, anche per compensare il calo delle vendite nelle economie più grandi. Senza tuttavia dimenticare che queste economie emergenti, benché meno legate al Fattore C3, presentano criticità interne da non sottovalutare.
Non siamo quindi al capolinea del miracolo economico africano. Il boom delle commodity si è arrestato; la Cina esercita una funzione di traino minore per la crescita africana; i capitali esteri possono riorientarsi verso i rendimenti nuovamente offerti dai porti sicuri. Ma l’Africa subsahariana è ormai una realtà economica che non può essere trascurata. Con una popolazione di 1,2 miliardi di persone e, secondo le proiezioni delle Nazioni Unite, destinata a crescere esponenzialmente (nel 2050 una persona su quattro vivrà nel subcontinente), gli operatori italiani sono chiamati a presidiare l’area per non perdere importanti opportunità.
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