L’intervento dell’avvocato Piero Cecchinato*, consulente legale di Confapi, dopo l’ampio risalto dato dai media allo studio di Fabbrica Padova
Una larga parte dell’opinione pubblica ritiene che la globalizzazione costituisca un gioco a somma zero. Un gioco in cui ai guadagni di una certa fetta della popolazione mondiale corrisponda necessariamente l’impoverimento di un’altra fetta. Più precisamente, per molti la globalizzazione drenerebbe risorse e profitti dalla classe media delle aree più sviluppate, alle classi meno abbienti dei paesi in via di sviluppo.
In realtà, c’è un consenso piuttosto diffuso fra gli economisti sul fatto che il libero mercato costituisca un gioco win-win. Un gioco in cui tutti hanno qualcosa da vincere.
Già Adam Smith, il padre dell’economia moderna, alla fine del ‘700 evidenziò l’illogicità sottostante a certe visioni protezionistiche. “Se un paese straniero - scriveva l’economista - può rifornirci di una merce a un prezzo minore di quello al quale noi stessi potremmo produrla, è meglio acquistare questa merce da quel paese, con una parte del prodotto della nostra operosità, impiegata in un modo nel quale se ne tragga qualche vantaggio”.
Qualche decennio dopo, l’economista inglese David Ricardo, prendendo spunto dalle riflessioni smithiane, descrisse i vantaggi diffusi dello scambio internazionale con un celebre case study. Egli mise a raffronto due paesi (Inghilterra e Portogallo) rispetto al commercio di due beni specifici (vino e vestiti). Sebbene il Portogallo fosse più efficiente nella produzione di entrambi i beni, Ricardo mostrò che i due paesi avrebbero trovato comunque vantaggio maggiore a specializzarsi nella produzione del solo bene nel quale godevano del maggior vantaggio comparato, per poi scambiarselo.
Insomma, che il commercio internazionale porti benefici a tutti i paesi che ne prendono parte, indipendentemente dal fatto che risultino importatori o esportatori netti, è ampiamente accettato tra gli studiosi di economia. Non sembra essere invece accettato da quella politica che necessita di individuare un capro espiatorio per raccogliere facile consenso.
Per molti, così, la chiusura del mercato, l’introduzione di dazi, l’erezione di nuovi confini ed il ritorno ad una sorta di autarchia rappresenterebbero un modo per evitare questo drenaggio di risorse dalla classe media dei paesi più abbienti ai paesi in via di sviluppo.
In realtà, le sirene anti globalizzazione nascondono non poche insidie e il rimedio suggerito dai nuovi cultori della sovranità nazionale rischia di essere molto peggiore del male.
Anzitutto, il protezionismo colpisce in modo più duro proprio le fasce più deboli della popolazione, perché l’introduzione di dazi aumenta il costo dei beni sugli scaffali del supermercato.
Il protezionismo incentiva politiche corruttive e clientelari, innescando una gara di lobbying da parte dei settori che aspirano ad essere protetti. In questo, il protezionismo favorisce molto di più le élite vicine alla politica che le classi meno abbienti.
Più in generale, il protezionismo sottrae risorse al libero mercato per metterle in mano ai giochi della politica sotto forma di tassazione sulle importazioni. Lo storico-economista Douglas Irwin ha dimostrato ad esempio che numerosi paesi che applicavano dazi elevati nel XIX secolo, come Canada e Argentina, utilizzavano queste imposte come fonte di reddito e non come vero mezzo di protezione per i produttori domestici.
Il protezionismo provoca poi ritorsioni pericolose per le imprese che esportano da parte dei paesi che si vedono limitare le proprie importazioni.
Il protezionismo alla lunga danneggia le stesse industrie protette, perché le sottrae al gioco della concorrenza, che è il più grande incentivo alla ricerca di nuovi prodotti e di maggiore efficienza.
Il protezionismo naturalmente danneggia le imprese non protette, che si trovano a dover scontare costi più elevati rispetto alle loro concorrenti favorite.
Il protezionismo e l’abbandono di politiche di cooperazione rendono più difficile la tutela dei propri prodotti all’estero contro imitazioni e contraffazioni.
Il protezionismo crea instabilità mondiale, perché impedisce ai paesi più poveri di svilupparsi.
Il protezionismo danneggia insomma la società nel suo complesso e getta le basi per nuovi scontri fra gli Stati.
Gli scambi commerciali con i paesi poveri non depauperano quelli ricchi. È vero il contrario. Sono i cambiamenti tecnici a basso impiego di manodopera e non specializzati a favorire una pressione al ribasso sui salari dei lavoratori, mentre le importazioni di beni a basso costo e ad alto impiego di manodopera, provenienti dai paesi in via di sviluppo, danno sostegno alle classi meno abbienti dell’Occidente che li consumano.
Insomma, se il reddito diminuisce non è perché importiamo beni dall’estero a basso costo, ma perché la dinamica della produttività interna non esce dal declino iniziato negli anni ’90.
Creano molta più disuguaglianza errate politiche redistributive e sperperi di spesa pubblica che un’importazione di beni a basso costo dall’estero.
*Diploma di maturità scientifica, laurea in giurisprudenza, avvocato nell’ambito del diritto commerciale e d’impresa, tutore presso la Facoltà degli Studi di Padova all’interno del corso di Diritto dei Mercati Finanziari. Da sempre appassionato di politica, ho scritto per La Critica, Libertiamo e Formiche. Cittadino del mondo e convinto liberaldemocratico, ho contribuito a fondare l’associazione EleMenti Liberali.
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