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NON FACCIAMO DI TARANTO UNA NUOVA PORTO MARGHERA MA NEMMENO DELL’EX ILVA UN ALTRO CASO ALITALIA

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CONFAPI PADOVA: «SE SIAMO ARRIVATI A QUESTO PUNTO È PER LA SCARSA CREDIBILITÀ POLITICA DI CHI CI GOVERNA»

Tante le analogie fra il caso dello stabilimento pugliese e quello del polo chimico veneto che ancora attende una bonifica in gran parte dei terreni. Fra posti di lavoro da salvare, risanamento da effettuare e decisioni che impongono una “visione” del futuro che al momento non c’è. Il presidente Carlo Valerio: «Uno Stato serio controlla la liceità di quanto viene fatto e basa le sue scelte su una politica industriale». E il rischio è che vengano buttati altri miliardi dei cittadini come quelli sperperati per “salvare” la compagnia di bandiera.

Porto Marghera e Taranto, i punti di contatto sono numerosi. Quello veneto è diventato uno dei poli chimici più importanti d’Europa arrivando a toccare nel 1971 il record storico di impiegati (35.724), prima di lasciarsi andare a un inesorabile e drammatico tramonto, costellato di morti per tumore, malattie e chiusure. Come attesta la Regione Veneto, solo nel periodo 2009-2013 la Provincia di Venezia ha concluso complessivamente 160 pratiche di crisi aziendali relative a Porto Marghera e zone limitrofe, mentre il “totale dell’organico locale delle aziende che hanno concluso trattative di crisi avvalendosi dell’intermediazione della Provincia di Venezia è stato pari a 7.295 unità”. Oggi si lavora al rilancio di un’area in larga parte ancora in attesa di bonifica: 781 milioni di euro sono stati usati per sanare solo il 15% dei terreni e l’11% della falda acquifera. «Un precedente da tenere in considerazione in uno Stato in cui tutti i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni sono stati accomunati dalla mancanza di una seria politica industriale», sottolinea Carlo Valerio, presidente di Confapi Padova, associazione delle piccole e medie industrie del territorio. È lì, a ben guardare, che affondano le proprie radici anche i problemi dell’ex Ilva e dei 10.700 operai che rischiano di rimanere senza lavoro, di cui 8.200 a Taranto (ma il totale sale a 20 mila se si conta l’indotto). 

«Il caso “ex Ilva” è complesso e impone di evitare ogni semplificazione forzata. Resta il fatto che, alla base dell’attuale crisi, c’è una questione di credibilità. In Italia siamo preoccupati di non riuscire ad attrarre investimenti esteri perché le imprese straniere non si fidano del nostro quadro normativo. Ma qui siamo all’esatto opposto: l’impresa straniera, nello specifico l’ArcelorMittal, ha capito che in Italia non c’è certezza del diritto e sembrerebbe essersene approfittata. Il che è ancora peggio. Chi investe altrove sa che le leggi e gli accordi saranno rispettati, qui sa che non lo saranno, perché non ci sono mai stati sufficienti controlli», evidenzia Valerio. «Il problema è lo stesso della questione autostrade: quando lo Stato opera dovrebbe poter controllare la liceità di quanto accade dopo. Invece ci si limita agli annunci legati al proprio tornaconto politico, senza che mai si inneschi il meccanismo virtuoso legato al controllo. L’operato dell’Ilva andava esaminato già quando era proprietà di Riva e le violazioni ambientali erano già presenti. Non sono state prese le contromisure adeguate, né sono prese dopo la cessione ad ArcelorMittal. Manca una struttura pubblica in grado di farsi rispettare».

Tra i “rischi” paventati c’è quello di una nazionalizzazione dell’impresa. Fabbrica Padova, centro studi di Confapi, ha raccolto alcuni dati. Tra costo del riacquisto dello stabilimento, adeguamenti ambientali e ammodernamento degli impianti lo Stato sarebbe costretto a sborsare 4,2 miliardi di euro: tenendo conto dell’inflazione e del cambio di moneta è poco meno della cifra spesa per costruirlo negli anni del boom economico. 1,8 miliardi servono a riscattare gli stabilimenti dalla gestione commissariale. Circa 800 milioni sono crediti dello Stato. E va calcolato inoltre il costo necessario a dare un futuro all’Ilva. L’ultimo piano industriale prevede 1,2 miliardi per l’ammodernamento degli impianti, altrettanto per gli interventi di bonifica e adeguamento ambientale. Ma i problemi non finirebbero qui. Perché per lo Stato mantenere la produzione attuale di acciaio rischierebbe di non essere esattamente un affare. Di fatto, non mancano le analogie con la questione Alitalia, per la quale i cittadini italiani hanno già messo sul piatto circa 10 miliardi.

«Ed è facile chiedersi quante aziende avremmo potuto far sviluppare con quei 10 miliardi già spesi. Quanta occupazione avremmo potuto creare? Quanti servizi avremmo potuto erogare? Quante infrastrutture costruire? Chi ha gestito Alitalia non ha saputo fare il suo mestiere: oggi Alitalia è un operatore vecchio in un mercato nuovo, una compagnia senza una strategia e una collocazione precisa. E il problema è che certi temi direttamente collegati a un elettorato tangibile non vengono affrontati da chi sta al Governo, che si troverebbe a scontentare potentati ed elettori. La morale è che a pagare è la collettività. A Taranto andranno quanto più possibile salvaguardati i posti di lavoro, ma è evidente che la produzione andrà ridotta, e che bisogna puntare su una tecnologia sempre più pulita. Oggi a parole si dice di credere nella Green Economy, ma, a conti fatti, il governo non è andato oltre alla Plastic tax, che, seppur ridotta, in realtà si traduce in un prelievo ai danni di imprese e consumatori, senza produrre alcun effetto positivo per l’ambiente. Quello che manca sul serio è un progetto, una visione strategica».

Diego Zilio

Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

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