Giovedì 28 aprile la nuova sede dell’Associazione ospiterà il primo seminario in presenza organizzato dal Gruppo esportatori Confapi Padova. Assieme al professor Antonio Di Meo, docente per SDA Bocconi, collaboratore del Sole 24 Ore e componente della Camera di Commercio Internazionale, abbiamo provato a delineare in questa intervista alcuni dei temi che saranno trattati. Perché le incertezze e le complessità degli scenari globali caratterizzano anche questo 2022: l’export va affrontato con strumenti operativi solidi ed efficaci che accompagnino il nostro sistema produttivo nella “nuova” globalizzazione.
Professore, quali sono le criticità che affronta un’azienda che vuole internazionalizzarsi?
«Ce ne sono numerose. Volendo fare sintesi, il primo errore che in genere viene commesso è quello di non considerare le peculiarità del mercato che l’azienda vuole raggiungere. In altre parole, il rischio che corre è quello di dare per assodato che i suoi modelli organizzativi e di sviluppo - che sono magari stati sperimentati con successo in Italia - possano essere riprodotti nel Paese estero in cui vuole vendere. Per cui il primo monito è quello di tenere presente le diversità: legate agli aspetti sociali, culturali, organizzativi e comunicazionali. Secondo errore: non considerare come il nostro prodotto può venire accolto fuori dai confini domestici. La terza criticità è di natura tecnica: mi riferisco alle diverse normative a cui fare riferimento, ai rischi logistici dovuti alla distanza, a tutti gli elementi da considerare legati alla modalità di trasporto, ai tempi per fare arrivare il prodotto, alla sicurezza. E poi ai rischi legati ai pagamenti, dovuti non solo alla situazione del proprio cliente ma a quella dello stesso Paese di destinazione. Oggi abbiamo davanti agli occhi in modo evidente quali possano essere: una guerra, oppure il pericolo di attentati e tutti quei fattori contingenti che potrebbero far saltare il pagamento di una fornitura già eseguita. Infine, pensate a come gli stessi termini possano assumere significati diversi da Paese a Paese, ad esempio formule come “franco fabbrica” o “franco listino” non sono interpretate ovunque allo stesso modo».
C’è di che spaventarsi...
«No, non c’è da spaventarsi. Piuttosto occorre adottare un approccio che consideri le diversità imparando ad affrontarle passo dopo passo. È necessario arrivare preparati alla fase di internazionalizzazione: costruire un piano per affermarsi anche sui mercati esteri in modo stabile, continuativo e che eviti al più possibile i possibili rischi».
Dall’alto della sua esperienza, ha l’impressione che le Pmi del territorio siano preparate a sufficienza?
«Non cadono dalle nuvole nell’approcciarci all’export, ma spesso trascurano elementi fondamentali. Molte, ad esempio, si rivolgono al mercato estero quando sono in difficoltà in Italia. Io dico: sì, va bene farlo, ma occorre prima aver chiaro il quadro di quello che bisogna fare. In questo senso le vicissitudini degli ultimi due anni, legate prima alla pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno comportato come effetto una maggiore attenzione a diversi degli aspetti a cui abbiamo accennato. Ma, in generale, è un’operazione che ancora non viene svolta in modo adeguato».
Ha toccato il tema dell’invasione dell’Ucraina. Tralasciando in questa sede tutti gli aspetti umanitari e limitandoci forzatamente a quelli economici, perché è sbagliato affermare che riguarda da vicino solo le imprese che esportano nell’area russo-ucraina?
«La guerra ha cambiato il quadro generale e, se vogliamo adottare questo punto di vista, riguarda qualsiasi impresa. E questo perché il mercato, oggi, è talmente intrecciato che i problemi dei due Stati in conflitto incidono anche sugli altri. Banalmente, ci sono componenti per la produzione e l’assemblaggio che servono in altri Paesi, la cui presenza sul mercato è condizionata dalla guerra. Capite bene che tutti gli Stati del mondo, perciò, sono coinvolti. E più la situazione è difficile più bisogna imparare a resistere e trovare le misure per rimanere in piedi senza farsi male, evitando di imbarcarsi in iniziative che possono danneggiare l’azienda ancora di più, invece di permetterle di trovare nuovi sbocchi».
Alla luce di tutti questi rischi, perché un’azienda dovrebbe puntare ai mercati esteri, allora?
«Noi dobbiamo pensare che il nostro mercato è il mondo. L’internazionalizzazione oggi è una condizione, non è un obiettivo, e, anche se da imprenditore potesse bastarmi mantenere nel tempo le mie posizioni, per riuscirci devo considerarla come una necessità. E poi internazionalizzare consente di diversificare i rischi. In questo senso abbiamo un esempio lampante oggi, purtroppo: l’Italia si è trovata in difficoltà perché importa il 43% del proprio gas dalla Russia. Ora sta trattando con l’Algeria per recuperare le quota che le mancheranno con l’embargo. È positivo che lo faccia, certo. Ma occorreva accorgersene prima e preparare, per tempo, soluzioni alternative: questa è una legge economica banale. È una caratteristica tipicamente italiana: come dice un mio collega tedesco, se noi italiani avessimo l’organizzazione che c’è in Germania non ce ne sarebbe per nessuno, perché la nostra creatività è unica. Ma lo spirito di iniziativa personale e la creatività non bastano più, oggi. Servono una visione strategica globale e la capacità di ragionare in un’ottica di tempo medio-lunga. Non è facile per una piccola impresa, che lavora nel breve e pensa all’immediato, me ne rendo conto. Oggi, però, la politica del “breve termine” non paga più, perché è troppo rischiosa».
Lei ha lavorato alla Camera di Commercio Internazionale di Parigi, ed è riconosciuto come uno dei massimi esperti internazionali di Incoterms®, vale a dire dei termini contrattuali utilizzati nel campo delle importazioni ed esportazioni, con cui si definiscono in maniera univoca diritti e doveri dei vari soggetti giuridici coinvolti in un’operazione di trasferimento di beni da uno Stato a un altro. Concetto complesso che forse l’imprenditore comune non padroneggia appieno. Ci spiega perché, invece, dovrebbe interessarsene?
«Perché è importante capire chi organizza i trasporti, chi sostiene i costi e chi si fa carico dei rischi: a seconda degli Incoterms® posso essere io imprenditore ad assumermi i rischi o può farlo il compratore, e vedete bene quanto non sia un aspetto secondario. E poi perché sono clausole che toccano un po’ tutti gli aspetti di una compravendita di merce, da quelli doganali, a quelli documentali, ai pagamenti e ai diritti di proprietà. Trascurare il loro impatto sulla compravendita può anche voler dire mettere a repentaglio tutta l’operazione che stiamo conducendo».
Diego Zilio
Ufficio Stampa Confapi Padova
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