Le interviste di Confapi: Mauro Trevisan, amministratore unico di Lamiere Tagliate spa. «Recuperare l’Ilva? Da italiano dico di sì, ma l’Europa ne sentirebbe la mancanza?»
«Salvare l’Ilva? Se me lo chiedete da italiano dico che parliamo di un polo strategico che va assolutamente recuperato, per il peso che ha sul Pil del Paese e perché si tratta di un complesso industriale che dà lavoro a migliaia di persone. Se però adottiamo il punto di vista europeo la risposta è per forza di cose diversa: in Europa, oggi, c’è una sovrapproduzione di acciaio. Le acciaierie sono talmente tante che, se l’Ilva chiudesse i battenti il mercato non ne sentirebbe la mancanza».
A parlare è Mauro Trevisan, amministratore unico di Lamiere Tagliate spa di Limena, Centro di Servizio che ha come scopo la commercializzazione e il taglio di lamiere, con un fatturato annuo di 10 milioni di euro e 17 dipendenti al proprio servizio. «Ma, prima del 2008, anno di inizio della crisi, il nostro fatturato si aggirava intorno ai 20 milioni, circa il doppio. Noi l’abbiamo affrontata cercando di adeguare le nostre strutture alla nuova situazione che si è creata» precisa Trevisan. «E, a proposito di quanto sottolineavamo prima, è significativo sottolineare che i volumi di produzione non sono calati nella stessa misura, ma solo del 30%, a dimostrazione di quanto sia sceso il valore delle materie prime».
Torniamo all’Ilva: cosa cambierebbe se finisse in mani straniere?
«Credo che la questione non riguardi la nazionalità di chi rileverà l’Ilva ma se finirà in mani serie o no. Che passi sotto al controllo del colosso franco-indiano dell’acciaio ArcelorMittal, come pare probabile, o resti in Italia, il problema resta quello. E, per come la vedo io, penso sia giusto rimanere aperti a qualsiasi opportunità».
E se passasse sotto il controllo di un grande gruppo italiano come Marcegaglia, non ci creerebbe un monopolio in grado di uccidere il mercato?
«Non credo che Marcegaglia possa acquisire l’Ilva da solo. In ogni caso è un rischio che non corriamo: in Italia esistono anche altre realtà importanti, a partire da Arvedi. E, comunque, per noi che lavoriamo nel settore, cambierebbe poco: possiamo acquistare dall’estero, come già facciamo».
Allarghiamo la prospettiva: vede spiragli di ripresa in questo momento nel suo settore?
«Negli ultimi due mesi abbiamo assistito a una lieve inversione di tendenza, con una leggera ripresa dei consumi che può far sperare che il peggio sia passato».
A questo riguardo, quanto hanno inciso i provvedimenti del Jobs Act introdotti dal Governo Renzi?
«Credo che stiano andando nella direzione giusta, ma è troppo presto per poter affermare che dietro alla moderata ripresa e al parziale aumento dell’occupazione ci siano le misure introdotte. Quel che posso dire è che parliamo di provvedimenti che dovevano essere presi e che possono portare a benefici all’interno del mercato del lavoro, ma aspettiamo qualche mese per giudicare. Aggiungo che non vedo al momento alternative plausibili a questo Governo e mi auguro che resti in carica a lungo».
Come si rilancia la produzione industriale nel nostro Paese?
«Credo che più ancora che di nuovi provvedimenti ci sia bisogno di un clima di fiducia. Quella fiducia che gli imprenditori devono ritrovare per tornare a investire. Ma per recuperarla serve, innanzitutto, stabilità. E’ chiaro che il quadro internazionale non aiuta, da questo punto di vista, perché la situazione della Grecia è incerta, il mercato russo bloccato e quello nord africano è diventato impossibile da percorrere. In questo momento quello che serve sono soprattutto gli accordi internazionali, a partire da quello Usa-Iran. Ritrovare stabilità è fondamentale».
Nell’attuale situazione di instabilità dell’area euro, ritiene che un’eventuale uscita dalla moneta unica aprirebbe uno scenario interessante o catastrofico?
«Non voglio nemmeno prendere in considerazione questa ipotesi, che trovo assurda. Abbandonare l’euro significherebbe tornare alla situazione dei primi del '900. E le ripercussioni di un’uscita non riguarderebbero soltanto gli stati dell’Unione Europea ma tutto il mondo. Non a caso a guardare con occhi preoccupati quello che succede in Grecia sono anche realtà lontanissime, dagli Stati Uniti ai paesi asiatici».
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