Perché i costi di energia elettrica e gas sono triplicati negli ultimi due anni? E quali scenari ci attendono? Lo abbiamo chiesto al professor Fontini, docente di Economia energetica e ambientale all’Università di Padova
In poco meno di due anni i prezzi delle bollette di energia elettrica e gas sono triplicati. Lo sanno bene famiglie e imprese. Ma perché è successo e quali scenari si prospettano nei prossimi mesi? In questa intervista abbiamo provato a sviscerare la questione con il professor Fulvio Fontini, docente di Economia energetica e ambientale al Dipartimento di scienze economiche e aziendali “Marco Fanno” dell’Università di Padova e membro del centro studi di economia e tecnica dell’energia “Giorgio Levi Cases”.
Professore, partiamo subito dal nocciolo del problema: perché si sono verificati questi aumenti?
«Innanzitutto dobbiamo distinguere tra gli aumenti legati alle fonti energetiche primarie, come il gas naturale e il petrolio - anche se con una volatilità differente - e quelli del prezzo dell’elettricità. Sono fenomeni collegati, ma distinti».
Partiamo dal gas.
«Il mercato del gas naturale tradizionalmente è sempre stato ancillare rispetto a quello del petrolio, ma da Fukushima in poi e dalla diffusione dello shale gas le cose sono cambiate e l’andamento dei prezzi ha iniziato a seguire un percorso diverso. Occorre precisare che i mercati sono sostanzialmente tre: Europa, Stati Uniti (con prezzi relativamente bassi) e Asia (con tariffe fino a 4 o 5 volte superiori alle nostre). Per quanto riguarda più nello specifico il mercato europeo, dipende per una parte consistente dalle forniture fisiche che arrivano dai gasdotti, localizzati perlopiù in Russia e Nord Africa. C’è sì, in Italia e Olanda, anche una parte di produzione interna, ma molto piccola, e infine c’è una parte residuale di importazione di LNG, ovvero il gas naturale liquefatto. Questa situazione è rimasta a lungo stabile e ha fatto sì che il prezzo non fosse sottoposto alla volatilità presente in altri settori. Il quadro è però mutato con l’ampiamento della presenza dell’LNG e con lo “spacchettamento” delle reti (il cosiddetto unbundling), nel momento in cui al suo interno sono entrate terze parti. La conseguenza è che sono aumentate le piattaforme europee che contrattano il gas su un mercato “spot” su base giornaliera, per quote di mercato libere, fattore che ha comportato una prima ridefinizione dei prezzi. In questo scenario si è poi inserita la pandemia».
E come ha influito?
«La pandemia ha causato prima una consistente riduzione della domanda e poi una sua consistente ripresa. Ma, badate bene, una ripresa disallineata nel mondo, iniziata prima in Asia e solo successivamente in Europa, e questo perché l’economia asiatica è ripartita in anticipo rispetto a quella occidentale. Ricordiamo poi i vincoli sull’offerta che hanno portato ai blocchi delle navi. Questo ha ridotto le quantità di gas da importare e di conseguenza ha fatto salire i prezzi. Contemporaneamente si sono ridotti gli arrivi dalla Russia, causati anche dai vincoli imposti dal lockdown - specialmente nel periodo estivo, che è quello in cui si fanno gli stoccaggi in vista dei maggiori consumi invernali. Dico “anche” perché di mezzo ci sono pure altri fattori, a partire da ragioni geopolitiche, come le tensioni esistenti fra Russia e Ucraina, e il fatto che ancora non è entrata in funzione la linea Nord Stream 2, ovvero il gasdotto che bypassa gli stati baltici - c’è chi dice per ragioni tecniche, chi per la pressione degli Stati Uniti».
E per quanto si protrarrà questa situazione?
«È la domanda a cui è più complicato rispondere. È ipotizzabile - e auspicabile - che alcuni dei fattori contingenti appena citati siano destinati a ridurre il loro peso, mi riferisco ovviamente al disallineamento delle diverse economie e ai vincoli che ostacolano i flussi di merci. Ciò che accadrà il prossimo inverno dipende dall’andamento degli stoccaggi di quest’estate, ma al momento è difficile avventurarsi in previsioni, perché molto dipende da come si evolverà la quarta ondata della pandemia. Tenete anche presente che se i prezzi sono alti, i paesi esportatori - come la Russia - hanno tutto da guadagnarci, e anche questo è un fattore da considerare e che ci fa pensare che i prezzi del periodo precedente - per capirci, i 3 dollari per mmBtu del 2019 - sia meglio scordarceli».
Quindi le nostre imprese dovranno fare i conti a lungo con bollette più care?
«Io dico che probabilmente osserveremo un altro fenomeno: dovremo imparare a fare i conti non tanto con prezzi delle materie prime mediamente alti o bassi, ma con prezzi decisamente più volatili. E quindi con andamenti magari più lenti nelle dinamiche settimanali e mensili del gas e più veloci in quello elettrico, ma in cui, in sostanza, la figura dell’energy manager delle imprese è destinata ad assumere un ruolo sempre più rilevante accanto al Ceo, con un peso importante nel valutare i fattori di rischio. Per troppo tempo le imprese hanno considerato il costo di materie prime ed energie come una costante su cui basare il proprio business. Ecco, questo modello “semplice” è destinato a diventare sempre più residuale. Anche per un effetto che ancora non abbiamo nominato sin qui e che non è secondario: quello delle policy climatiche. Mi riferisco in particolare a quelle della decarbonizzazione. Qui sarebbero davvero tantissimi gli aspetti da affrontare, ma in questa sede possiamo limitarci a sottolineare che tutti sono d’accordo sull’idea di ridurre le fonti fossili come petrolio e carbone, ma lo sono meno sul come riuscirci. Ed ecco che ci colleghiamo al secondo punto, i costi dell’elettricità».
Che sono lievitati in modo spropositato.
«Il prezzo medio fino alla pandemia si era assestato tra i 40 e i 60 euro a megawattora, mentre negli ultimi mesi è salito fino ad assestarsi agli attuali 240,68 euro (dato aggiornato al 18 gennaio, ndr). Le ragioni? In parte sono legate al mercato del gas, perché l’elettricità si produce, appunto, anche grazie al gas. E il prezzo, non dimentichiamolo, lo fa il costo marginale della tecnologia marginale, in altre parole è basato su quanto costa produrre l’ultima quantità di energia consumata in quel momento. Per cui, è vero che il 40% della corrente elettrica utilizzata in Italia deriva da fonti rinnovabili - che, al netto di quelli fissi, hanno costi nulli, dato che non paghiamo il sole per splendere o l’acqua per scorrere - ma è vero anche che il costo generale è comunque basato sul costo dell’energia di picco, vale a dire sul costo dell’energia prodotta attraverso il gas. Dopodiché, appunto, entrano in gioco anche le politiche legate alla decarbonizzazione e al conseguente aumento dei prezzi per l’acquisto delle quote di emissione di CO2, dovuto alla strategia europea che punta a tagliare le emissioni nette di gas serra del 55% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990. Soltanto in questo modo le aziende possono essere incoraggiate a passare a combustibili più puliti e a tecnologie sostenibili, riducendo le emissioni entro i limiti previsti. L’aumento della produzione basata su fonti rinnovabili comunque contempla altri fattori di rischio, non dimentichiamolo. Si tratta, infatti, di energie che comportano un margine di volatilità legato alla natura - se spira o no il vento, se c’è o no il sole, etc. - e per tutelarsi nei periodi di magra occorre pensare ad alternative come lo storage - che al momento può essere valido solo a livello di nicchia - o, di nuovo, alle centrali a gas. Il nucleare, invece, non può fare un backup alle fonti rinnovabili, perché il nucleare è un baseload: produce sempre. Ne consegue che, comunque, volenti o nolenti occorrerà fare ancora i conti con i prezzi del gas».
Il che rende complicato sbilanciarsi sul futuro.
«Non possiamo dire quale sarà il prezzo medio di corrente elettrica e gas, questo no. Quello che possiamo dire è che probabilmente l’era dell’energia a basso prezzo è passata, ma che ci sarà un assestamento a un livello più basso di quello attuale. Ma il punto è di nuovo quello già menzionato: ci sarà una sempre crescente volatilità e un crescente fattore di rischio».
In questo quadro le piccole imprese pagano un prezzo più alto rispetto a quelle grandi, perché hanno meno peso contrattuale.
«Sì, ed è per questo che ritengo che sia necessario uscire dall’ottica aziendale per ragionare su base strutturale. Pensiamo, per fare un esempio, a quanto è accaduto nella contrattazione del lavoro: il costo del lavoro ha sempre inciso molto quelli dell’azienda e questo ha spinto le imprese a ricorrere sempre più di frequente a figure atipiche, a meccanizzarsi sempre di più laddove possibile e a delocalizzare. Ecco, la prossima frontiera della gestione delle imprese sarà quella di gestire i rischi energetico-climatici. Ma è logico che le aziende non potranno farlo da sole, questo no. Ed ecco che allora il ragionamento da fare si amplia toccando le politiche di aggregazione, le energy communities, e gli enti intermedi che si occupano dell’efficientamento. Quel che posso dire è che non penso che la risposta stavolta sarà nella delocalizzazione, perché quello dell’energia è un problema di livello mondiale, anche se con caratteristiche diverse da area ad area. Se si poteva andare a cercare il lavoro a basso costo nei paesi dell’Est, con l’energia questo non potrà accadere, no. Banalmente, anche il solo mettere assieme i profili di consumo e ottimizzarli, aggregandoli, oggi può sembrare qualcosa di “strano” alle nostre imprese, ma la vedo come una possibile soluzione che diventerà sempre più rilevante nel prossimo futuro».
Diego Zilio
Ufficio Stampa Confapi Padova