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VARSORI: «SUL CONFINE UCRAINO UNA DIMOSTRAZIONE DI FORZA, MA LO SCONTRO NON CONVIENE A NESSUNO»

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Il professor Varsori: «Non si arriverà a vere sanzioni verso la Russia, anche se la tensione durerà ancora qualche mese. La vera partita è quella tra Stati Uniti e Cina»

 

Le sanzioni minacciate dagli Usa in caso di aggressione della Russia all’Ucraina metterebbero in fortissima difficoltà non soltanto Mosca, ma anche i paesi dell’Unione Europea, già travolti da una crisi energetica senza precedenti. Creando problemi anche all’Italia e alle aziende che hanno rapporti commerciali con l’area in questione. Ma qual è la posta in gioco, perché si è arrivati a questo punto e quanto alto è il rischio che si arrivi sul serio alle sanzioni? Confapi Padova lo ha chiesto al professor Antonio Varsori, tra i maggiori storici dell’integrazione europea e della politica estera italiana, titolare dalla cattedra “Jean Monnet” di Storia dell’integrazione europea all’Università degli Studi di Padova, Presidente della Società Italiana di Storia Internazionale nonché membro del Comitato per la Pubblicazione dei Documenti Diplomatici Italiani del Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale.

Professore, perché si è arrivati a questo punto?

«Per avere un quadro di quanto sta accadendo oggi occorre fare una premessa. Nella fase di crisi dell’Unione Sovietica, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, sembra che ci sia stato un accordo non scritto tra il presidente degli Stati Uniti Bush (padre) e Gorbaciov, in base al quale si era deciso che gli americani non avrebbero approfittato del crollo del regime per inserire i paesi dell’Europa centro-orientale all’interno dell’alleanza atlantica. Negli anni ’90 la Federazione Russa ha vissuto una crisi pesantissima dal punto di vista economico e sembrava sull’orlo dell’implosione, e Stati Uniti ed Europa erano molto preoccupati da una situazione che minacciava di trasformarsi in una nuova Jugoslavia all’ennesima potenza, aggravata dalla presenza di armi nucleari. Cosa si è fatto allora? La risposta è stata inserire nell’Unione Europa il maggior numero di paesi dell’area, da quelli baltici alla Romania e alla Bulgaria, tutte nazioni che facevano parte della sfera difensiva dell’Unione Sovietica. L’amministrazione Clinton ha poi deciso di allargare l’alleanza atlantica a tutti questi paesi. Quando Putin è salito alla guida ha subito fatto capire di avere un obiettivo opposto: quello di riposizionare la Russia come una grande potenza mondiale, in grado di riacquisire influenza sul cosiddetto spazio post-sovietico, ovvero su quei paesi che sono la cintura difensiva della Federazione. Per capirlo basta osservare il suo atteggiamento: la guerra in Georgia, l’annessione della Crimea, il sostegno alle forze separatiste dell’Ucraina e quello a Lukashenko in Bielorussia».

E questo spiega le origini delle tensioni attuali. Ma perché l’Ucraina è così importante dal punto di vista geopolitico?

«In Ucraina si sono alternati governi che sono stati o filo-russi o filo-occidentali. E ogni volta che sono saliti al governo questi ultimi, Putin ha considerato che a sostenerli fossero appunto le forze occidentali, che a suo tempo hanno spinto i movimenti in Piazza Maidan e che mirano a portare l’Ucraina dentro l’alleanza atlantica. Ecco, questo Putin non lo può accettare. Il punto è che l’Ucraina non è né la Georgia né la Lituania né la Lettonia, ma un paese immenso e ricco. E Putin non può acconsentire ad avere ai confini della Russia un paese così forte e che, allo stesso tempo, faccia parte dell’alleanza atlantica: è questo il suo timore, che Zelensky, presidente filo-occidentale, compia ora il passo successivo, con l’ingresso nella Nato. La reazione di Putin è stata una dimostrazione di forza, con lo schieramento delle truppe al confine. Ecco, io non credo voglia invadere sul serio l’Ucraina, ma vuole far vedere che può farlo. Lui è un politico abile, e sa fino a che punto può spingersi».

Perché l’escalation sta avendo il suo culmine ora?

«Perché Putin sa che dall’altra parte c’è un presidente americano debole come Biden. Un presidente che, oltretutto, ha un problema nei rapporti commerciali, e di influenza, con la Cina. Biden, a sua volta, dopo la disastrosa ritirata afghana, deve dimostrare a sua volta che è forte e può rispondere, facendo vedere che può mobilitare velocemente le truppe».

L’Europa che margine di manovra ha tra i due fuochi?

«L’atteggiamento europeo è diverso da quello americano, perché l’Europa ha forti rapporti economici con la Russia. È il caso soprattutto della Germania, ma anche della stessa Italia. È evidente che una guerra avrebbe per conseguenza una serie di sanzioni economiche molto forti che l’Europa, a differenza degli Usa, non può permettersi di sostenere. Gli investimenti che abbiamo in Russia a quel punto salterebbero, senza contare che una parte considerevole delle nostre risorse energetiche provengono proprio dal quel paese, petrolio ma soprattutto gas (la Russia fornisce il 41% del gas naturale consumato nel Vecchio Continente, ndr), e la Germania ci ha puntato più di tutti. Ecco, allora, i distinguo del caso: sosteniamo sì Stati Uniti e Nato, ma è più saggio negoziare, proprio perché in gioco ci sono interessi economici enormi, che vanno oltre le conseguenze militari. Di fatto, l’Europa prova a mediare mentre assiste a una reciproca dimostrazione di forza, destinata, però, a non sfociare nello scontro. Infatti, se la domanda è: come andrà a finire? Rispondo che ci vorrà del tempo, ma credo che la crisi si raffredderà».

Per capirci, esclude che si arrivi a scollegare il settore bancario russo dal sistema di pagamenti internazionali Swift e a impedire quindi a Mosca di convertire i rubli in dollari. Allo stesso tempo, esclude anche che si possa bloccare il progetto Nord Stream 2.

«Esatto. Sanzioni del genere sarebbero un grosso errore anche sul piano strategico, perché l’unico attore che potrebbe trarne reale vantaggio sarebbe la Cina. E il vero contrasto gli Usa lo hanno, appunto, con la Cina, non certo con la Russia. Quello con la Cina è uno scontro politico ed economico-commerciale, andare a fronteggiare con la Russia, invece, per loro non ha alcun senso, perché la Russia è forte solo sul piano politico e militare, non sul versante economico. E se la Russia dirottasse le sue forniture di gas verso la Cina, come ventilato, per gli Usa sarebbe ancora peggio. Questo non significa che non ci sarà tensione: in questo gioco di ruolo ognuno deve apparire come il vincitore agli occhi esterni. E, tuttavia, non credo si andrà oltre».

In questo contesto, che margini di intervento ha l’Italia?

«L’Italia ha i suoi problemi e poca possibilità di incidere. È chiaro che il presidente Draghi conosce bene quali siano i rapporti di forza e gli interessi economici delle aziende italiane, ma in uno scontro di questa portata l’opera di mediazione la può fare l’Unione Europea e, fra in singoli paesi, la possono fare Germania e Francia, non l’Italia. Il nostro paese, al massimo, può avallare la loro linea».

Quindi gli investitori italiani hanno o non ragione di nutrire timori?

«Nelle relazioni internazionali nessuno può sul serio sapere nulla: alcune crisi internazionali sono nate per errore e ci sono fattori imponderabili che possono subentrare. Pensate, ad esempio, se i separatisti russi in Ucraina lanciassero un’azione militare: chi potrebbe controllarli? Se però consideriamo gli attori principali in gioco, Stati Uniti e Russia, non mi immagino ipotesi catastrofiche: una fase di tensione ci sarà, per poi abbassarsi nel giro di qualche mese, superata da altre questioni internazionali, come le stesse elezioni di Midterm negli Usa. Può anche essere che si arrivi a qualche sanzione economica, per dimostrare che si fa qualcosa, ma è tutto da vedere se poi eventuali misure del genere sarebbero fatte rispettare davvero. Per cui, oggi come oggi, per chi investe in Russia una certa dose di rischio c’è, ma se la domanda è: quanto alto è questo rischio? La risposta è: non altissimo. Se dovessi esprimere una percentuale, direi che il rischio di uno scontro militare con annesse sanzioni economiche non va oltre il 10-15%».

L’Ucraina quindi non entrerà nella Nato.

«Se entrasse nella Nato si arriverebbe allo scontro, perché Putin non lo potrebbe assolutamente accettare e si troverebbe costretto ad agire. Ma, appunto, anche gli americani ci penseranno dieci volte prima di far entrare l’Ucraina nell’alleanza atlantica. Per quanto un presidente debole come oggi è Biden possa essere spinto più di altri ad azioni clamorose - dettate dalla necessità di far vedere che è politicamente forte -, compierle sarebbe un errore clamoroso. Gli Stati Uniti stanno combattendo una partita che non ha alcun senso per loro. Lo ripeto: il vero terreno di scontro è quello con la Cina».

 

 

Diego Zilio

Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

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