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«L’ACCOGLIENZA DIFFUSA? COMUNI E IMPRESE HANNO TUTTO DA GUADAGNARCI. OPPORSI EQUIVALE A NASCONDERE LA TESTA SOTTO LA SABBIA»

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Intervista a don Luca Facco, vicario episcopale per i rapporti con le istituzioni e il territorio: «Nessuno vuole ripetere l’esperienza dell’hub di Cona, ma serve che tutti facciano la loro parte: pensate che accogliere 4 o 5 immigrati nel proprio comune possa sul serio creare problemi di ordine pubblico?».

 

Confapi Padova ha preso posizione, al fianco di Regione Veneto e Anci, per governare concretamente l’emergenza immigrazione e non farsi travolgere, come accaduto in passato. Ma perché si parla di emergenza, oggi? E cosa si può fare effettivamente per affrontarla? Per provare a inquadrare la questione abbiamo intervistato una persona che ne può parlare con cognizione di causa e per esperienza diretta: don Luca Facco, vicario episcopale per i rapporti con le istituzioni e il territorio, presidente della Fondazione Nervo Pasini - che sostiene le Cucine Economiche Popolari della Chiesa di Padova nella gestione di tutti gli aspetti operativi e di governance - e già direttore della Caritas diocesana di Padova.

Don Luca, partiamo dall’inizio: qual è la situazione oggi e perché si parla di emergenza? Una parola di cui spesso si abusa a livello mediatico, ma a cui lo stesso Governo ha fatto ricorso, tanto da proclamare, lo scorso 11 aprile, lo “stato d’emergenza” su tutto il territorio nazionale per l’immigrazione.

«Si parla di emergenza perché gli sbarchi continuano in maniera consistente e l’Italia non riesce a gestire da sola questa situazione. Ma se si parla di emergenza è anche perché, a tutti i livelli, si fatica a stringere accordi e a trovare collaborazione. Dico a tutti i livelli perché è chiaro che si tratta di una questione che riguarda sì i comuni, a livello locale, ma che ha rilievo internazionale».

Cosa spinge, oggi, i migranti a lasciare il loro paese?

«Le migrazioni fanno da sempre parte della storia dell’umanità. A motivarle, oggi, sono il cambiamento climatico, con le conseguenze che sta avendo in Africa, mettendo a rischio l’accesso a cibo e acqua; le guerre e i subbugli interni nei singoli paesi; ma anche quello che possiamo definire come un elemento strutturale nelle immigrazioni: le comunità meno ricche investono sui propri figli mettendoli nelle condizioni di partire, con la speranza di ricevere poi un ritorno al loro rientro. Questo è un aspetto che sussiste da sempre, basti pensare a come la stessa Italia l’abbia vissuto direttamente, con tanti emigranti che hanno lasciato i confini per cercare fortuna negli scorsi decenni».

Cosa si sta facendo per affrontare l’emergenza?

«Teniamo presente che ci sono normative internazionali a cui sottostare, all’interno dei cui contorni si inseriscono quelle nazionali. L’Italia ha il dovere di accogliere chi giunge alle sue coste, perché si tratta di persone considerate “richiedenti protezione”. A quel punto vanno ascoltate per capire se effettivamente hanno diritto allo status di rifugiato, e vanno registrate. E qui salta il primo tassello della collaborazione, perché questa prima forma di accoglienza viene gestita direttamente dallo Stato attraverso le prefetture e le cooperative sociali nei CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria) disseminati lungo il paese: ma già qui succede che i singoli comuni si oppongano e, in molti casi, non vogliano ospitarli».

Perché succede? Perché, cioè, numerose amministrazioni comunali non li vogliono sul proprio territorio?

«Parlerei di disinformazione e ignoranza, e di una paura dell’immigrato veicolata anche dai media. È utile fornire alcuni numeri, che chiariscono qual è la situazione: attualmente sono 1.700 i migranti nella provincia di Padova, su quasi un milione di abitanti (7.800 quelli ospitati invece nell’intero Veneto, ndr). Questo numero comprende tutti: chi arriva dal Nord Africa, chi dall’Ucraina, chi dal Pakistan e dagli altri paesi. La distribuzione dei migranti è fatta a livello regionale e poi provinciale. Ora, se fossero distribuiti in base al numero di abitanti dei singoli comuni, vi rendete conto che si tratterebbe di due, tre, cinque, dieci migranti per comune. Quantità assolutamente sostenibili per una comunità locale. Di questo stiamo parlando, possibile che sia sul serio un problema ospitare un numero così esiguo di persone? Ai comuni peraltro in questa prima fase non viene chiesto nulla, perché sono le prefetture e le cooperative a occuparsi dei migranti. Ai 1.700 ospitati oggi in provincia potrebbero aggiungersene nel corso dell’intera estate altri 500 o 600, ma stiamo parlando di numeri di questa portata, non maggiore».

Perché allora c’è chi agita lo spauracchio di un’altra Cona, hub che era arrivato a ospitare, nel 2017, 1.500 migranti e che da tutti è stato bollato come l’esempio del fallimento dell’accoglienza?

«All’epoca in tantissimi comuni non solo si era detto “non vogliamo migranti”, ma anche “non vogliamo nemmeno che sul nostro territorio agiscano le cooperative”. Suo malgrado il prefetto ha così dovuto pensare a una soluzione obbligata come quella dell’hub che li accentrava a Cona, ma è una deriva a cui non si voleva arrivare all’epoca e non si deve arrivare ora. Badate che, oggi, si sta parlando appunto di accoglienza diffusa. Strutture del genere in Veneto non sono più operative e quello che speriamo è che non debbano essere riproposte. Se si è arrivati a quel punto, però, è proprio per via dei tanti no da parte dei comuni».

Confapi Padova ha preso posizione in maniera decisa a riguardo, sostenendo la necessità dell’accoglienza diffusa: gli imprenditori sono pronti a offrire opportunità di lavoro e a promuovere l’inclusione sociale attraverso l’occupazione. Don Luca, ci può dire cosa si aspetta dal mondo delle attività economiche e produttive?

«Rispetto al 2008, quando l’Italia attraversava un periodo di crisi economica e gli sbarchi giunsero in un determinato contesto particolarmente difficile, la situazione è cambiata radicalmente. Oggi il mondo produttivo ci sta dicendo: abbiamo un bisogno enorme di manodopera. Soprattutto in alcune attività, più umili, oggi è impossibile trovare un lavoratore italiano. Ecco perché questi ragazzi, se integrati e formati, sarebbero una grande risorsa per lo stesso mondo imprenditoriale».

Ma come si può arrivare a coordinare la loro integrazione?

«Quello che sta mancando è il secondo tassello: se il primo tassello sono i CAS, che sono gestiti direttamente dalle prefetture, nel momento in cui è riconosciuto al richiedente lo status di rifugiato dovrebbe partire il SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione), rivolto a persone a cui lo Stato riconosce che, realmente, meritano l’accoglienza. Ma cosa sta succedendo a Padova? Che su 102 comuni, oggi, solo 8 hanno attivato il SAI. Se il primo tassello riguarda la richiesta di protezione, il secondo riguarda l’inserimento lavorativo, l’inserimento abitativo, l’insegnamento dell’italiano e quei corsi di formazione che favoriscono l’integrazione. E faccio presente che noi, come Chiesa, saremmo più che disponibili a mettere a disposizione le nostre strutture per i SAI, che siano canoniche, ex asili o altre realtà inutilizzate. A livello normativo, però, sono i comuni a dover fare richiesta. E guardate, per quanto ci riguarda, un conto è parlare della disponibilità nelle amministrazioni comunali, un conto è avere un comune che ti rema contro. Ecco perché serve un passaggio culturale, ed è la ragione per cui, poco fa, parlavo di ignoranza e disinformazione: certe paure si vincono assieme. Badate bene che anche per i SAI i bandi sono pubblici, per cui non è implicata alcuna risorsa comunale: a cercare le case sono le cooperative, nel mercato privato. I comuni non metterebbero un soldo e avrebbero il beneficio dato dalla possibilità di controllare la situazione e offrire manodopera alle aziende del proprio territorio. Ma per arrivare a questa fase serve, appunto, che si rendano disponibili».

Esistono modelli virtuosi a riguardo? Esempi vincenti da citare?

«Nel Padovano esistono alcuni comuni che fanno da capofila. Il mese scorso abbiamo organizzato un incontro, coordinato da Provincia e Diocesi, a cui hanno partecipato i rappresentanti di 86 amministrazioni locali: nell’occasione hanno potuto ascoltare le testimonianze di realtà come quelle dei comuni di Piazzola sul Brenta, Montegrotto, Padova ed Este, che fanno da apripista. Lì, non solo i cittadini si accorgono della presenza dei migranti, ma addirittura le aziende vanno a “prenderseli” subito per l’inserimento lavorativo, introducendoli nel mondo produttivo. Ne guadagnano gli stessi comuni, perché una volta che il rifugiato lavora può pagarsi l’affitto o la casa».

In questo quadro dove si inserisce il protocollo voluto dal presidente Zaia, che mira alla creazione di una cabina di regia che coinvolga Regione e Anci nell’accoglienza? E perché è importante che corra per la sua strada?

«Il protocollo votato in Regione si inserisce ai livelli dei CAS, ovvero della prima accoglienza. Ed è importante perché, per la prima volta, la Regione invita tutti a fare la propria parte. E lo fa proprio per evitare che si ripeta l’esperienza del passato e si torni alle tendopoli a cui ha fatto riferimento il presidente Zaia: se nessuno accoglierà i 500 profughi che arriveranno in estate sul territorio padovano, per capirci, è chiaro che si dovrà arrivare a un’unica struttura che li ospiti. Nessuno, però, vuole che si giunga a questo. Ecco l’importanza del protocollo, mirato a coordinare la fase di accoglienza».

Come sarebbe possibile migliorare il quadro normativo attuale?

«Non sono un esperto di legge, ma credo che sì, sia possibile intervenire. Un punto chiave secondo me è questo: come i sindaci si muniscono dei servizi sociali devono munirsi anche dei SAI, e devono farlo indipendentemente dal colore politico. È un passaggio a mio avviso fondamentale, perché il tema dell’accoglienza e dell’integrazione ci sarà sempre ed è meglio affrontarlo preparati, e non nascondere la testa sotto la sabbia. Ma qui occorre alzare lo sguardo e tornare al discorso iniziale, allargato a livello internazionale. Non possono essere soltanto Italia e Grecia a doversi far carico del problema, solo perché i migranti sbarcano sulle loro coste e non su quelle di altri paesi più lontani. Attualmente, invece, la normativa prevede che chi arriva si debba fermare nel primo paese di approdo. Questo è evidentemente un problema, perché la redistribuzione va allargate a livello europeo. L’Unione Europea supera i 400 milioni di abitanti, è palese che dividendo i migranti all’interno del continente il loro impatto sarebbe molto minore. Il principio è sempre quello dell’accoglienza diffusa, valido a tutti i livelli».

 

Diego Zilio

Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

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