Proseguono la serie di interviste ai saggi che compongono il Comitato Tecnico Strategico di Veneto Sviluppo, chiamati a indicare le scelte di sviluppo della Regione e intercettare i fondi del PNRR
Innanzitutto occorre precisare cosa si intende per economia circolare: un sistema economico pensato per potersi rigenerare da solo, garantendo dunque anche la sua ecosostenibilità. Un concetto che va sempre più a sostituirsi al modello dell’economia lineare - fondato invece sullo schema “estrarre, produrre, utilizzare e gettare” - e a cui lo stesso PNRR intende dare impulso. Da qui parte l’intervista a Francesca Gambarotto, Professoressa Associata di Economia Applicata all’Università di Padova, con un’esperienza specifica nelle tematiche attinenti allo sviluppo economico territoriale sostenibile attraverso lo studio, appunto, dell’economia circolare e dei processi di innovazione imprenditoriale e di innovazione territoriale introdotta dai decisori pubblici.
Professoressa, tra i compiti a cui è chiamato l’Advisory board c’è sostanzialmente quello di immaginare il Veneto che verrà. Un Veneto che, come il resto del mondo, è uscito profondamente modificato dalla pandemia.
«Noi non abbiamo la sfera di vetro: lo premetto per sottolineare che il Veneto del futuro lo disegnerà la politica. Quello che possiamo fare come CTS è segnalare alcuni scenari possibili alla luce delle nuove frontiere tecnologiche. Lavoreremo, in particolare, sulla capacità di sostenere e stimolare processi di innovazione da parte delle imprese. A riguardo, posso dire che da parte del mondo delle imprese vedo un interesse al dialogo. E questo anche alla luce del PNRR, che fa specifici riferimenti all’intelligenza artificiale e a nuove forme energetiche».
In quest’ottica, quale ruolo ha la transizione verso un’economia circolare, vale a dire verso un modello di produzione e consumo che implica condivisione, prestito, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento e riciclo dei materiali e prodotti esistenti il più a lungo possibile?
«Negli ultimi anni l’economia circolare è uscita dal concetto di nicchia e questo è indubbiamente positivo perché significa che i corpi intermedi, come le associazioni di categoria, hanno operato un’assunzione di responsabilità, nella consapevolezza che le imprese, che siano grandi o piccole o abbiano anche caratteristiche prettamente artigianali, devono fare questo salto operativo. Hanno capito che lo sviluppo non è solo una questione di competitività - come si diceva fino a ieri - ma di competitività e sostenibilità combinate assieme: ogni decisione deve essere misurata in termini di rispetto dell’ambiente e relazioni sociali. Aggiungo il riferimento alle relazioni sociali perché, quando parliamo di “sostenibilità”, non ci riferiamo solo alla presenza di CO2 nell’ambiente, ma anche al maggior equilibrio della ricchezza prodotta dalle forze economiche. Pertanto è qualcosa che non riguarda solo imprenditori e lavoratori dipendenti, ma molte altre categorie, dai liberi professionisti ai giovani che entrano nel mercato del lavoro, alle donne».
Perché è necessaria la transizione verso un’economia circolare?
«Ci troviamo di fronte a un aumento della domanda di materie prime e allo stesso tempo alla loro scarsità: molte delle risorse essenziali per l’economia sono limitate, ma la popolazione mondiale continua a crescere e di conseguenza aumenta anche la loro richiesta. Questo bisogno di materie prime crea una dipendenza verso altri paesi per l’approvvigionamento. Non dobbiamo poi dimenticare che i processi di estrazione e utilizzo delle materie prime producono un grande impatto sull’ambiente e aumentano il consumo di energia e le emissioni di anidride carbonica. Un uso più razionale delle materie prime può contribuire a diminuire le emissioni di CO2».
In queste dinamiche il Veneto, il cui tessuto economico e peculiarmente dominato da imprese di piccole dimensioni, come si pone?
«Il contesto è, sì, quello delle piccole e medie imprese, ma non dobbiamo appoggiarci ai falsi miti di una volta. Abbiamo un tessuto imprenditoriale molto vivace e intraprendente che deve guardare a scenari nuovi, scenari che non sono più né quelli degli anni ’70, rivolti alla domanda interna, né quelli degli anni ’90, in cui al centro c’era la globalizzazione. Oggi esiste un bel nucleo di imprese, anche piccole, che sono molto attente al tema dell’economia circolare e quindi a rivedere i loro processi produttivi, riconcepire il rifiuto per vedere se possono ricavare materie prime nuove o nuove componenti, e rivedere il design. Non abbiamo ancora una massa critica ma secondo me è solo una questione di tempo perché ci si arrivi. Di poco tempo. Ora mi sto riferendo al settore manifatturiero, ma è una riflessione estendibile anche al turismo e all’agricoltura. Quest’ultimo dalla fine degli anni ’70 è un settore generalmente bistrattato, ma oggi è diventato più che mai centrale alla luce dei problemi climatici e della carenza di cibo per una popolazione che cresce sempre di più».
La pandemia ha avuto ripercussioni sulla transizione verso un’economia circolare?
«Parlo a sentiment e non a partire da dati, ma ho ma l’impressione che non ci siano stati rallentamenti, anzi. Vedremo sempre più cambiamenti: nuove forme di relazioni di lavoro. A Londra, ad esempio, grazie al diffondersi dello smart working è salita la richiesta di abitazioni all’esterno dell’area metropolitana, e dotate di giardino. Ecco, qui in Veneto possiamo giocarci le nostre carte, ma occorre bonificare alcune tendenze sviluppate negli anni scorsi, come l’eccesso di consumo di suolo, e occorre rivitalizzare i territori urbanizzati che già abbiamo. Teniamo presente che i processi produttivi non devono per forza essere concentrati nelle aree urbane, ma possono essere distribuiti anche nei centri minori. Se la tendenza è questa, in Veneto paradossalmente abbiamo già di base un assetto policentrico, che può essere, appunto, una carta da giocarsi in maniera intelligente».
Se il quadro è questo, più che sulle aziende, dobbiamo puntare sugli ecosistemi di imprese, istituzioni e comunità.
«Ecosistema è un termine oggi molto di moda, io preferisco parlare di intelligenza collettiva. Sono stanca di sentire che si delega tutto alle imprese. Intendo dire che le imprese possono fare molto, ma solo se sono inserite in un ambiente che le sostiene e inietta loro fiducia. E non è solo questione delle scelte di governo, ma di scelte che devono essere fatte a tutti i livelli, anche locali. Qui è il caso di utilizzare il concetto della sussidiarietà tanto caro all’Unione Europea: tutti gli attori pubblici sono chiamati ad assumere responsabilità e ad avere competenze che consentano di transitare dall’economia lineare a quella circolare».
Lei è stata presidente del Parco Scientifico e Tecnologico Galileo di Padova dal 2014 al 2020 e ha dato un forte impulso alla sua crescita. Che bilancio ha tratto da quella esperienza?
«Il Parco è cresciuto in maniera molto veloce. In sei anni abbiamo trasformato la struttura, consentendole di raggiungere gli obiettivi che ci eravamo dati col piano industriale, e un’eccellente redditività. È una struttura pubblica, non dimentichiamolo, un consorzio che vede come attori principali la Camera di Commercio di Padova, il Comune, la Fondazione Cariparo e l’Università, ma che funziona proprio perché è in costante dialogo con le imprese, mettendo in relazione le start-up con il sistema produttivo veneto. Io credo che continuerà seguendo questa direzione e che crescerà ulteriormente nel segno della sostenibilità, accompagnando le imprese nei processi decisionali: quali tecnologie acquisire, su quali prodotti puntare, quali sono i mercati in cui andare, quali i partner potenziali. Al suo interno la Scuola di design forma ad esempio giovani che hanno questo tipo di sensibilità, legata alla progettualità del prodotto, fondamentale per l’impresa che ragiona nell’ottica dell’economia circolare e che si propone di trasformare un potenziale rifiuto in una preziosa risorsa da immettere nuovamente nel ciclo produttivo».
Diego Zilio
Ufficio Stampa Confapi Padova