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DEBEI: «LA CORSA ALLO SPAZIO È UN’OPPORTUNITÀ PER IMPRESE E CITTADINI», ECCO PERCHÉ LA NEW SPACE ECONOMY HA UN POSTO DI PRIMO PIANO NEL PNRR

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Proseguono la serie di interviste ai saggi che compongono il Comitato Tecnico Strategico di Veneto Sviluppo, chiamati a indicare le scelte di sviluppo della Regione e intercettare i fondi del PNRR

 

La corsa allo Spazio è anche una questione di opportunità. Per le aziende e per i comuni cittadini. E lo spiega con cognizione di causa il professor Stefano Debei, Ordinario in Misure Meccaniche, Termiche e Collaudi all’Università di Padova nonché Direttore del Centro di Ateneo di Studi e Attività Spaziali “Giuseppe Colombo” - CISAS.

«Mi occupo di strumentazione e robotica spaziale, nella mia vita professionale ho sempre svolto ricerca», precisa il professor Debei. «La mia attività si inserisce in una delle quattro linee indicate dalla Regione nel momento in cui è stato costituito l’Advisory Board, quella relativa alle tecnologie spaziali. Al momento gli sforzi internazionali sono orientati alla possibilità di portare un astronauta prima sulla base orbitante attorno alla Luna e poi su Marte, mentre il prossimo anno sarà lanciato il satellite della missione Juice voluta dall’Agenzia Spaziale Europea e forte di un importante contributo italiano: Juice è diretta alle lune ghiacciate di Giove - Ganimede, Europa e Callisto - e consentirà di studiare quali sono le condizioni per la formazione dei pianeti e la comparsa della vita, e come funziona il sistema solare».

In tutto questo, quali sono le opportunità che si presentano per le imprese?

«In primis c’è la necessità di produrre la strumentazione necessaria e le tecnologie di supporto all’essere umano che in orbita dovrà seguire le attività svolte sul suolo lunare. Ma ci sono poi le opportunità legate al down streaming dei risultati che arrivano dai satelliti e che devono essere elaborati, tanto da diventare poi “sfruttabili” anche a livello commerciale. Già oggi esistono missioni italiane che osservano il suolo terrestre: mi riferisco ad esempio al satellite Prisma, dotato di strumenti elettro-ottici che consentono di distinguere non solo le caratteristiche geometriche degli oggetti osservati, ma anche la composizione chimico-fisica della superficie terrestre, fornendo dati che permettono di valutare le variazioni di quantità d’acqua, inquinamento, fertilizzanti, e da cui possiamo partire per migliorare le coltivazioni. O pensiamo a Cosmo-SkyMed, la prima missione di osservazione della Terra concepita per scopi duali, civili e militari: i suoi satelliti di prima e seconda generazione sono “occhi” in grado di scrutare il pianeta dallo spazio con la precisione che va oltre il centimetro, di giorno e di notte, con ogni condizione meteo: possono aiutare a prevedere frane e alluvioni, a coordinare i soccorsi in caso di terremoti o incendi, a controllare dall’alto le aree di crisi. Ecco, questo tipo di attività può coinvolgere aziende che tradizionalmente non operano nello spazio ma che magari si occupano di software e app che possono adeguare i dati anche ad utenti non esperti. C’è infine un ulteriore, importante aspetto legato alle ricadute per le aziende e gli stessi cittadini: valorizzare le innovazioni e i risultati della ricerca significa rendere accessibili le conoscenze e le tecnologie, sviluppate nell’ambito di progetti spaziali, a settori commerciali, industriali, sociali o di ricerca diversi da quelli da cui hanno avuto origine».

Al di là del fascino legato all’idea di arrivare a Marte, perché è così importante che l’uomo ci metta piede?

«Lo disse Obama, quando ancora era in carica: l’obiettivo degli Usa è quello di raggiungerlo entro il 2040. Ma anche la Cina si è mossa. Per certi versi instaurando una rivalità che ricorda quelli dei tempi della guerra fredda, volta a dimostrare la potenza della propria tecnologia. Ma non c’è ovviamente solo questo. Alla base c’è l’interesse scientifico legato allo studio di un pianeta morto geologicamente da 3,5 miliardi di anni: conoscerlo meglio ci può consentire di ridurre l’effetto dell’essere umano sul nostro pianeta. Ma anche qui: serviranno tecnologie legate alla manutenzione una volta lontani da Terra e un domani, quando l’uomo potrà andare su Marte, anche in situ. Il punto è che ci sono tecnologie che prima era estremamente care ma i cui costi si sono abbattuti, tanto che sono impiegate comunemente - pensiamo alle mini telecamere introdotte nell’automotive o a come siano diffusi i droni. Il volano per le aziende è quello: quelle tecnologie si trasferiranno poi a più largo consumo tra i comuni cittadini. Nel concreto vuol dire poter realizzare business. Ecco perché se parliamo di new space economy non dobbiamo focalizzarci solo su Elon Musk. Partiamo da un prodotto realizzato “custom”, su misura, che ha bisogno di vari prototipi per essere sviluppato e che comporta costi altissimi nell’acquisto delle materie e nelle ore di lavoro, ma una volta che si aumentano i volumi di progettazione e li si spalmano su migliaia di esemplari, la spesa si abbassa di moltissimo».

Peraltro, rimanendo sul tema delle ricadute che le innovazioni introdotte in questo campo hanno poi per la vita comune, vale la pena di ricordare che ci sono oggetti o cibi che utilizziamo quotidianamente derivati dalla ricerca sviluppata con scopi legati all’esplorazione spaziale, dal latte in polvere (nato dagli studi per realizzare nuovi alimenti adatti alle missioni di lunga durata) alle lenti antigraffio degli occhiali (dagli studi per le visiere che indossano gli astronauti), per arrivare al teflon che riveste le padelle (materiale ceramico derivato dagli scudi termici delle navicelle spaziali). A oggi quante sono le aziende venete coinvolte?

«La rete innovativa regionale “Aerospace Innovation and Research - AIR” voluta dalla Regione Veneto a oggi conta una quarantina di imprese, nonostante nel nostro territorio ce ne siamo almeno 130 che operano a nome e per conto delle grandi aziende del settore aerospaziale italiano, ovvero Leonardo e Thales. Parliamo di imprese che in genere hanno il know how ma non le varie certificazioni Esa necessarie, per cui di fatto sono semplici fornitori. L’obiettivo, oggi, è appunto quello di coinvolgere aziende che tradizionalmente non operano nell’ambito aerospaziale proprio perché potranno giovarsi delle ricadute dei progressi compiuti. Pensiamo anche solo ai ritorni che ci potranno essere in ambito medico: se vogliamo portare un essere umano a milioni di chilometri di distanza dalla Terra dovremo sviluppare sensori e tecnologie in grado di monitorare le sue condizioni in tempo reale, regolando le dosi degli eventuali medicinali da assumere, ma questo poi lo si potrà fare anche per curare chi è a casa sul nostro pianeta. È chiaro che la singola azienda difficilmente può lanciarsi da sola in questo settore. E qui inoltre subentrerebbero altre questioni legate ai brevetti, alla proprietà intellettuale e agli accordi di riservatezza, aspetti che ancora scoraggiano tanti imprenditori, sebbene tutti affrontabili e risolvibili. In questo senso il ruolo dell’Università è quello di traferire le conoscenze, ma poi sono le aziende a doversi muovere con le proprie gambe. E qui la strada da fare è ancora molta e servono una struttura e laboratori che consentano di affrontare queste sfide e di riprodurre a terra le condizioni in cui opereranno gli strumenti e gli esseri umani che un giorno andranno nello spazio».

 

 

Articolo a cura di
Diego Zilio
Ufficio Stampa Confapi Padova

stampa@confapi.padova.it

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